Perché leggere i classici

Lo Hobbit di John Ronald Reuel Tolkien, ovvero tutto l'affetto che si può provare per un libro




(The Hobbit, or there and back again)

Di solito, prima di scrivere una recensione, aspetto un po' di tempo dal momento in cui finisco il libro al momento in cui mi metto a progettare l'articolo. Questo perché molto spesso - soprattutto se la lettura mi è piaciuta - nella testa mi ritrovo una nube di emozioni, pensieri e viaggi mentali. Di solito raccontando ad altri quello che il libro mi ha trasmesso e fatto vivere, riesco nuovamente a fare ordine e a ritornare in me. Il momento in cui un libro finisce, è sempre tragico, una sorta di addio. Anche se potrò sempre riprendere in mano quella storia, non sarà mai più come la prima volta, quando il mondo era sconosciuto ed inesplorato e l'amore per i personaggi e le situazioni narrate sbocciava per la prima volta. Ma questo post è diverso: ho finito il libro circa tre ore fa e voglio provare a parlarne subito per vedere cosa ne viene fuori. Per certi versi sarà tragico, ma ne ho bisogno. 
Un'altra cosa di questo post che potrebbe far strano è il mettere questo libro tra i classici e per rispondere subito tiro in ballo uno dei post che ho scritto a Giugno, ovvero L'anima di Ilsie n°6 in cui mi baso su ciò che ha scritto Calvino per definire i classici e grazie a questo credo di poter far entrare tranquillamente "Lo Hobbit" nella categoria. Parliamo di un autore che con le sue opere ha dato un enorme contributo nella definizione in senso moderno del genere fantasy epico, non dico che l'abbia fondato, ma sicuramente ha dato il via ad una tradizione e ad una letteratura autonoma e di tutto rispetto. Io amo il fantasy epico, il mio amore inizia dalla primissima adolescenza e durerà per sempre. Ed è un genere che, prestandosi molto alla moderna cinematografia e supportato dalla tecnologia avanzata degli effetti speciali, ha riscosso il successo e la diffusione che merita. Il fantasy deriva dai cicli medievali, dal romanzo di formazione, dalla mitologia e dal cuore più antico della letteratura, quando il suo ruolo principale era quello di istruire - ancora per via orale - le nuove generazioni alla vita e alle tradizioni della comunità. Ma sto divagando troppo.


"Lo Hobbit, andata e ritorno" viene pubblicato nel 1937 e nelle intenzioni dello scrittore viene concepito come una fiaba per bambini. Il protagonista è Bilbo Baggins, un hobbit sedentario e tranquillo che vive serenamente nella Contea, finché lo stregone Gandalf si presenta alla sua porta proponendogli un'avventura. Dopo un iniziale rifiuto da parte del protagonista e una visita non programmata da parte di una brigata di tredici nani però le cose cambiano e Bilbo si trova catapultato fuori da casa prima di rendersene conto. Penso di potermi fermare qui con la trama, molti di voi la conoscono grazie ai film che ne ha tratto Peter Jackson. Ora il mio invito è quello di metterli da parte e leggere davvero questo libro; non perché i film siano brutti - a parte il terzo, li ho adorati -, ma proprio per godersi davvero questa avventura, questo viaggio inaspettato. 

E' un libro che insegna ad uscire dalle proprie zone di confort, a lasciare andare tutte quelle cose che ti sembrano così essenziali alla ricerca di qualcosa di più profondo. Bilbo è tutto tranne un tipo coraggioso e impulsivo all'inizio della storia e niente esiste per lui al di fuori delle comodità della sua bella casa. Ma dentro di noi a volte si nascondono cose non conosciamo e che non possiamo conoscere finché non ce ne viene data l'occasione: ed è proprio quello che fa Gandalf, proponendogli la cosa che lui teme di più, un'avventura. L'avventura nel fantasy rappresenta un percorso fisico quanto un percorso psicologico, e ciò è quello che farà Bilbo nella compagnia dei nani, timoroso di tutto all'inizio ed alla fine guida e avanguardia della spedizione. "E' più in gamba di quanto possiate immaginare, e assai di più di quanto creda lui stesso" afferma Gandalf all'inizio del libro e nulla di rivelerà più vicino al vero. In parallelo cresceranno la stima e la considerazione dei nani nei suoi confronti, ma anche l'idea che lui ha di se stesso e il coraggio e la consapevolezza del suo ruolo nell'avventura e della sua responsabilità per il bene di tutti.

E' anche un libro che parla di amicizia nel suo senso più ampio. Si va dall'amicizia personale come quella che nasce tra Bilbo e Thorin: si basa sulla fiducia e sulla presenza nel momento del bisogno, sulla condivisione di esperienze di vita che ti legano per sempre. Ma si parla di amicizia che ti salva la vita, come quella con Beorn il mutaforma e con le Grandi Aquile del Nord, che grazie al loro intervento permettono ai nani e al protagonista di salvarsi e proseguire nel loro viaggio. Ed infine si parla di amicizia come alleanza, altruismo e compassione al di là delle differenze per sconfiggere insieme un nemico comune. Popoli completamente distanti gli uni dagli altri che però sono in grado di sconfiggere insieme l'oscurità presente nel mondo, per quanto superiore possa sembrare. All'amicizia si contrappone l'avidità, "la malattia del drago", la brama dell'oro e tutto ciò che è materiale, facendo dimenticare che la vera ricchezza sono i rapporti personali, gli amici che ti seguiranno fino alla fine del mondo e che si schiereranno sempre al tuo fianco. Gli amici che fanno la cosa giusta per te, anche se non sempre lo capisci subito. Il vero tesoro del libro sono i cuori dei personaggi e la rete di stima e riconoscenza che durerà finché ci sarà memoria. 

Avevo anche pensato di parlarvi dei personaggi più nello specifico, ma lascerò che li scopriate voi. Leggete questo libro: non ha nulla a che fare con lo stile di scrittura de "Il Signore degli anelli". Vivetelo perché è un dono. Nel momento in cui ho finito questo libro e l'ho chiuso, ho provato un grande senso di gratitudine per l'avventura che mi ha permesso di vivere e l'affetto per un compagno di viaggio che resterà nel mio cuore per sempre. 

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